
Pochi giorni fa ho terminato di leggere un libro autobiografico che mi ha profondamente colpito. La storia che racconto è segnata dal dolore e sofferenza, ma al tempo stesso è intrisa di forza di volontà, coraggio e determinazione: qualità che hanno permesso all’autrice di superare enormi ostacoli per raggiungere una vita piena e realizzata. Parlo del libro Una vita degna di essere vissuta di Marsha Linehan.
La Terapia Dialettico Comportamentale
Marsha è una psicologa e professoressa emerita di psicologia presso l’Università di Washington. A lei si deve lo sviluppo della Terapia Dialettico Comportamentale (TDC), una forma di psicoterapia ideata alla fine degli anni ’70 per il trattamento di persone altamente suicidarie e autolesioniste. Nel tempo, studi scientifici ne hanno dimostrato l’efficacia anche nel trattamento del disturbo borderline di personalità, della depressione, del disturbo post-traumatico da stress, e non solo.
La mindfulness
La TDC si basa su quattro pilastri fondamentali: mindfulness, tolleranza alla sofferenza, regolazione delle emozioni ed efficacia interpersonale. In particolare, la mindfulness – pratica che consiste nel portare l’attenzione al momento presente in modo non giudicante – è centrale nel percorso terapeutico.
La si può praticare osservando il respiro, notando il movimento dell’addome a ogni inspirazione ed espirazione, oppure semplicemente osservando i propri pensieri passare, lasciandoli fluire senza giudizio e senza farsi trascinare da essi. Vivendo questi istanti di semplice presenza, la mente si acquieta, lasciando spazio a un senso di benessere emotivo.
Questa tecnica trae origine dalle meditazioni buddhiste: ne assorbe l’essenza e mette da parte gli aspetti religiosi. Oggi è largamente riconosciuta in ambito scientifico per i suoi benefici sul benessere psicofisico.
Marsha fu tra le prime – se non la prima – a introdurre la mindfulness in ambito terapeutico. Questa intuizione nacque dal desiderio di insegnare l’accettazione ai suoi clienti; ma per riuscirci, doveva prima imparare ad accettare se stessa. Per questo motivo soggiornò per tre mesi nel monastero zen Shasta Abbey. Questa esperienza fu per l’autrice molto ricca e significativa. Tuttavia, non completamente soddisfatta decise di partire per il centro zen di Willigis Jäger a Würzburg in Germania, dove rimase per quattro mesi. Tornò dai suoi studenti, che sentiva di aver abbandonato, ma continuò a frequentare periodicamente il centro zen di Willigis, fino a diventare maestra zen.
Il concetto di accettazione radicale
Queste esperienze furono fondamentali per l’elaborazione di un concetto chiave della TDC: l’accettazione radicale, cioè un'accoglienza totale di sé e della propria vita, con tutte le sue difficoltà e imperfezioni. Non è qualcosa che si può apprendere in modo tecnico. L’accettazione è una profonda presa di coscienza, che può richiedere anche anni per realizzarsi. Ma è una strada necessaria per avere una vita più serena e gratificante.
Vivere in uno stato constante di inadeguatezza, giudizio e insoddisfazione verso se stessi, sentirsi perennemente delusi dalla propria vita, è qualcosa che poco alla volta ci logora dentro, lasciandoci in una condizione di perenne infelicità e frustrazione. Sentirsi invece profondamente accettati ci pone in uno stato di armonia con la vita. Non sono né più né meno di ciò che dovrei essere: tutto ciò che sono è esattamente ciò che sono chiamato a essere.
Desideriamo vite perfette, desideriamo di essere perfetti. Ma l’accettazione significa comprendere che la vita è fatta anche di difficoltà, imperfezioni e cadute, sapendo accogliere tutto questo senza giudizio. Anzi, ricordando che ci sono sempre motivi per cui essere riconoscenti e grati. Accogliendo noi stessi e la nostra condizione, impariamo ad accogliere anche l’altro. Diventiamo più aperti, tolleranti ed empatici, forse perché non abbiamo più nulla da rimproverare a noi stessi.
Certo, raggiungere una simile consapevolezza è tutt’altro che facile, e la nostra società ce lo impedisce in ogni modo, proiettandoci modelli sempre più irrealistici. La bellezza mostrata sui social, così come le loro vite, case, viaggi e stili di vita, è spesso artefatta e distante dalla realtà. Viviamo in una società che ci vuole produttivi, affidabili, preparati, brillanti, interessanti e sempre pronti a dare il massimo. Poi ci stupiamo se siamo profondamente stressati e con un crescente aumento di disagi mentali.
Dentro l’inferno
Marsha non ha semplicemente introdotto la mindfulness e il concetto di accettazione radicale per caso. La sua è stata una vita tutt'altro che facile, segnata da momenti di profonda sofferenza e dolore. C’erano tutti i presupposti per pensare che la sofferenza patita durante l’adolescenza l’avrebbe condotta a una vita emarginata e anonima, destinata a concludersi in un tragico finale. Ma la sua storia ha preso una direzione completamente diversa.
Il ricovero in istituto
Alcune settimane prima del diploma, Marsha venne ricoverata all’Institute of Living, un istituto psichiatrico. Avrebbe dovuto restare lì per due settimane, per alcune valutazioni diagnostiche a causa di violenti mal di testa, ma vi rimase due anni... due anni di inferno.
Marsha appena ricoverata iniziò a manifestare comportamenti autolesionisti, che con il tempo divennero sempre più violenti. Rompeva le finestre e usava le schegge per tagliarsi le braccia e le cosce. Quando non riusciva a procurarsi oggetti contundenti, usava le sigarette per causarsi bruciature.
Per tenerla sotto controllo, furono adottate misure estremamente dure: dalle terapie elettroconvulsivanti alla cosiddetta "terapia dell’impacco freddo", che consisteva nello spogliarla completamente, avvolgerla in lenzuola bagnate conservate nel congelatore e legarla al letto con delle cinghie. A volte tutto questo non bastava: veniva rinchiusa in una stanza di isolamento anche per lunghi periodi, fino a dodici settimane. In qualche modo, non riusciva a controllare gli impulsi che la spingevano a farsi del male, come se una parte di lei – la più cupa e disperata – prendeva il sopravvento, costringendola a compiere gesti violenti senza riuscire a opporsi.
Marsha ricorda quel periodo come il più terribile della sua vita e lo descrive con queste parole1:
So come ci si sente all’inferno, ma ancora oggi non riesco a trovare le parole per descriverlo. Ogni parola che mi viene in mente è assolutamente inadeguata a spiegare quanto esso sia terribile. Anche a dire che è terribile non comunica nulla dell’esperienza. Quando rifletto sulla mia vita, spesso mi rendo conto che non esiste una felicità tanto grande da poter bilanciare il dolore emotivo, bruciante e lacerante, che ho provato molti anni fa.
La lotta e la rinascita
Marsha racconta di aver superato gli impulsi autolesionistici grazie a una crescente forza di volontà: voleva dimostrare a tutti che si sbagliavano. Era ormai considerata un caso senza speranza, destinata a essere abbandonata in un manicomio pubblico. Ma lei voleva guarire, voleva uscire dall’inferno che si portava dentro. Poco alla volta, riuscì a ottenere dei miglioramenti che le permisero di lasciare l’istituto.
Ovviamente il rientro a casa non fu facile: i genitori non la accolsero con grande affetto. Forse soffrivano per ciò che le era accaduto, oppure per la figlia che avevano perso in quell’istituto e che non sarebbe mai più tornata. La ragazza che avevano davanti era ormai segnata da quella lunga permanenza, e le cicatrici sparse su tutto il corpo ne erano la prova visibile. La madre, da sempre ricordata come molto critica e severa nei suoi confronti, lo divenne ancora di più, al punto che la situazione in casa divenne insostenibile. Così, la convinsero a trovare una nuova sistemazione.
Il processo di rinascita non fu facile: nel corso degli anni Marsha ricadde in comportamenti autolesionistici e tentò il suicidio in alcune occasioni. Allo stesso tempo, però, cresceva in lei il desiderio di avere una vita migliore e di poter essere d’aiuto ad altri che vivevano esperienze simili.
Aiutare gli altri come missione di vita
In realtà, il desiderio di aiutare chi soffriva di autolesionismo o pensieri suicidi divenne per lei una vera e propria missione di vita. Questa determinazione la spinse a superare grandi sfide personali, fino a laurearsi con lode alla Loyola University di Chicago nel 1968. Quello fu solo il primo dei suoi titoli accademici: negli anni conseguì ulteriori riconoscimenti che la portarono a diventare una stimata ricercatrice, docente e fondatrice della Terapia Dialettico Comportamentale, ricevendo numerosi premi per il suo lavoro clinico e di ricerca nel trattamento dei comportamenti suicidari.
Ho deciso di raccontare questa storia perché la trovo particolarmente ispiratrice. Parla di una ragazza che si è trovata al limite estremo della sofferenza umana, vivendo esperienze che molti avrebbero definito senza speranza. Eppure, nonostante tutto, è riuscita a risalire, portando il suo valore e il suo contributo nel mondo. Con il suo lavoro ha aiutato migliaia di persone a emergere dalla sofferenza.
Durante la sua permanenza nel centro psichiatrico, fece una promessa: sarebbe uscita da quell’inferno e, una volta fuori, sarebbe tornata per aiutare gli altri a uscirne. Come lei stessa ha detto:
Sarei uscita dall'inferno e, una volta fatto, sarei tornata all'inferno per far uscire gli altri.
Questa promessa è diventata la sua missione di vita, una forza guida che ha orientato molte delle sue scelte. Se non avesse sofferto di gravi disturbi psichiatrici, forse si sarebbe sposata e avrebbe avuto dei figli, conducendo una vita più regolare e stabile. Ma è proprio grazie a quel dolore che ha trovato la sua strada.
Desidero citare le parole dello psicoanalista Viktor Frankl che, durante la prigionia in un campo di concentramento nella Seconda guerra mondiale, si pose la domanda: “Cosa mi sta chiedendo la vita?” e arrivò alla seguente conclusione2:
Non importa affatto che cosa possiamo attenderci noi dalla vita, ma importa, in definitiva, solo ciò che la vita attende da noi.
Racconta di due prigionieri che ormai non speravano più nulla dalla vita. Ma si poteva ancora ricordare che la vita attendeva ancora qualcosa da loro. Uno dei due aveva un figlio adorato che lo aspettava all’estero; l’altro non aveva nessuno, ma la vita attendeva comunque qualcosa da lui: la sua opera. Era uno studioso che aveva pubblicato una collana di testi, ancora incompleta, che attendevano il loro compimento. Quest’uomo era indispensabile per quell’opera, così come l’altro era insostituibile per l’amore del figlio. Frankl sottolinea come ciascuno di noi possieda un’unicità e un’originalità che conferiscono significato alla nostra esistenza.
In quei campi di concentramento, chi non si lasciò morire furono quelli che non persero la speranza. Anche se a volte i nostri sogni non si realizzano, sperare non è mai invano: la speranza ci muove, ci spinge a camminare verso qualcosa di nuovo. Ed è sempre meglio che restare fermi, immobili nella propria disperazione. La speranza ci ha dato ciò di cui avevamo bisogno.
Anche Frankl, come lei, ha trovato un significato profondo nel proprio dolore. Non lo ha negato, non lo ha ignorato, ma lo ha trasformato in uno strumento per aiutare altri a salvarsi. Il suo inferno non è diventato solo memoria di sofferenza, ma fondamento di una vocazione.
Conclusioni
Il coraggio di Marsha non è solo nella guarigione, ma anche nell’aver raccontato la sua verità, rompendo il silenzio su ciò che molti vivono nell’ombra. Ha dimostrato che la vulnerabilità, quando è attraversata con consapevolezza e onestà, può diventare la nostra più grande forza.
Questa storia, secondo me, lascia un messaggio chiaro e autentico: c’è sempre speranza nella vita, anche nei momenti più bui, anche quando tutto sembra perduto. Non parlo di una speranza passiva, che ti mette in attesa che accada qualcosa di migliore. Parlo di quella speranza che, anche quando ti senti tra le fiamme dell’inferno, ti permette – se riesci a trovare dentro di te uno spirito combattivo e un senso di rivalsa – di uscirne e conquistare una vita degna di essere vissuta.
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Pasquale Aramo
Questo blog nasce da un'esigenza semplice ma profonda: capire meglio il mondo nelle sue caotiche complessità. Non scrivo da esperto, ma da semplice curioso che desidera capire un po' di più la società in cui vive