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Il potere delle parole: come il linguaggio plasma la realtà
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Il potere delle parole: come il linguaggio plasma la realtà

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Ci troviamo in un’epoca storica in continua trasformazione. Appena ci abituiamo a qualcosa, siamo travolti da cambiamenti sociali improvvisi che generano, più che certezze, inquietudini e paure. Mai come oggi, abbiamo il bisogno di rallentare e prestare maggiore attenzione al mondo che ci circonda — un mondo fatto anche di linguaggio che divide, spaventa, che incita all’incertezza e alla violenza.

Ipotesi Sapir-Whorf

Tutte le parole che usiamo per descrivere la realtà sono molto più di semplici definizioni: attraverso le parole costruiamo il mondo in cui viviamo.
Questa intuizione fu formulata all’inizio del Novecento dall’antropologo Edward Sapir e dal suo allievo Benjamin Lee Whorf, nella celebre ipotesi Sapir-Whorf.

Studiando alcune lingue indigene, notarono che non era possibile una traduzione perfetta tra lingue diverse, perché ogni cultura attribuiva sfumature uniche ai propri termini. Spesso, alcune parole non avevano corrispettivi in inglese, perché i concetti che esprimevano non esistevano nella cultura occidentale. Whorf arrivò così a una conclusione potente: il linguaggio influenza profondamente il pensiero e il modo in cui una società percepisce la realtà.

Ancora oggi possiamo vedere esempi di questo fenomeno. La parola giapponese Amae descrive il piacere di dipendere affettuosamente da qualcuno, come fa un bambino con la madre. Il tedesco Schadenfreude esprime la gioia per la sfortuna altrui. Il portoghese Saudade indica una nostalgia dolceamara per qualcosa che si è perso, ma che si ama ancora profondamente.

Avere parole per descrivere queste emozioni non significa solo poterle nominare, ma anche riconoscerle in sé stessi, condividerle, normalizzarle. In altre parole: ciò che si può dire diventa anche più facilmente pensabile. E ciò che è pensabile, può diventare realtà condivisa.

I frame secondo Lakoff

Negli anni successivi, quando l’ipotesi di Sapir-Whorf era ormai oggetto di critiche e revisioni, George Lakoff ne ha raccolto l’intuizione e l’ha ampliata. Secondo Lakoff, ogni parola attiva un frame: una struttura mentale che comprende valori, emozioni, immagini, giudizi morali. Dire una parola, insomma, non è mai neutro: evoca una cornice che orienta il pensiero.

Ad esempio, la parola terrorismo attiva automaticamente emozioni di paura, l’idea di un nemico e la necessità di sicurezza. È evidente come venga spesso usata per legittimare operazioni militari o misure restrittive, senza bisogno di ulteriori spiegazioni. Il frame è già attivo.

Ma questo vale anche per parole apparentemente più innocue. Da qualche anno si sono diffuse etichette come Boomer, Gen X, Millennial e Gen Z. Ognuna di queste parole porta con sé un insieme di stereotipi: il Boomer è visto come privilegiato, conservatore, poco tecnologico; la Gen Z come fragile, iperconnessa e dipendente dai social. La diffusione di queste etichette ha portato a una maggiore divisione generazionale, alimentando un senso di appartenenza ma anche di opposizione.
Le persone, però, sono molto più complesse delle etichette che ricevono.

In questo senso, ogni parola è una lente che modifica la realtà. E più queste lenti si diffondono nel linguaggio comune, più diventano strutture profonde del pensiero collettivo. La politica lo sa bene: fa un uso attento delle parole per legittimare le proprie azioni. Così, un intervento armato diventa una missione di pace, e danni collaterali significa uccisione di civili inermi. Cambia la parola, cambia la percezione morale dell’azione.

Le nazioni come frame culturali

Ci sono parole che più di altre – e che spesso diamo per scontate – hanno un frame culturale potentissimo. Penso, ad esempio, alla parola nazione. Questo termine evoca senso di patria, unione, identità, tradizione e persino sacrificio.
Ma, concretamente, che cos’è una nazione?

Una risposta semplicistica potrebbe essere: una nazione è una comunità che si basa su confini geografici immaginari.

Usando le parole di Benedict Anderson, una nazione:

è immaginata, perché i membri anche della nazione più piccola non conosceranno mai la maggior parte dei loro connazionali, non li incontreranno mai e non ne sentiranno mai parlare, eppure, nella mente di ciascuno vive l'immagine della loro comunione.

Queste comunità traggono forza da una lingua comune, da miti fondativi fatti di battaglie e lotte per l’indipendenza, da simboli come le bandiere e gli inni. Non voglio dire che tutto questo sia sbagliato, anzi: probabilmente le nazioni sono la forma di organizzazione più stabile mai avuta dall’umanità. Oggi, ovunque nel mondo, esistono stati sovrani che condividono protocolli diplomatici e regole comuni: diritto internazionale, diritti umani, accordi commerciali, ambientali e molti altri.

Il linguaggio applicato ai conflitti odierni

Ma a volte l’identità nazionale diventa così forte che la contrapposizione tra noi e voi si trasforma in un motivo di conflitto. E per i motivi più disparati si cerca di estendere questo confine immaginario. L’uccisione dei propri cittadini da parte del “nemico” diventa un atto intollerabile, mentre l’uccisione dei civili nemici, anche se avviene a pochi chilometri da quel confine immaginario, viene giustificata come un danno collaterale, un prezzo da pagare per raggiungere i propri obiettivi.

Tutte le azioni di guerra sembrano gridare con forza che il vostro diritto alla vita non vale quanto il nostro. Anche se, spesso, a dividerci è solo una linea tracciata nella sabbia.

Basti pensare alla guerra tra Russia e Ucraina: due popoli con una storia comune, che oggi si uccidono a vicenda. E non si parla nemmeno apertamente di guerra, di massacri, di crudeltà. La Russia la definisce un’operazione militare speciale per denazificare l’Ucraina. Così facendo, richiama la memoria collettiva della Seconda guerra mondiale, quando l’URSS sconfisse il nazismo. Questo attiva sentimenti di orgoglio nazionale, giustizia storica e lotta contro il male assoluto, trasformando di fatto un’aggressione in una liberazione.

Anche la guerra tra Israele e Palestina non è da meno. Israele ha lasciato la Striscia di Gaza quasi completamente devastata: scuole, ospedali, moschee e università distrutte. Interi quartieri ridotti in macerie, e migliaia di civili, tra cui moltissime donne e bambini, uccisi.

La giustificazione è stata il diritto all’autodifesa e l’accusa ad Hamas di usare i civili come scudi umani. Ora Israele invoca lo stesso diritto all’autodifesa anche contro l’Iran. Forse arriverà il giorno in cui queste parole perderanno forza di fronte all’evidenza dei fatti, e chi ha commesso crimini sarà chiamato a risponderne.

Conclusioni

I miti e le leggende del passato raccontavano di uomini che, pronunciando certe parole, avevano il potere di lanciare incantesimi. Forse questo potere non è mai svanito: è ancora vivo tra noi. Viviamo dentro incantesimi sociali, dove la realtà viene distorta, e ciò che dovrebbe essere inaccettabile diventa moralmente accettabile.

Forse questo incantesimo può essere spezzato solo costruendo un nuovo linguaggio: un linguaggio che metta in risalto le affinità invece delle differenze, che unisca invece di dividere. In fondo, apparteniamo all’umanità, non a una nazione, a un credo o a una comunità.

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Pasquale Aramo

Questo blog nasce da un'esigenza semplice ma profonda: capire meglio il mondo nelle sue caotiche complessità. Non scrivo da esperto, ma da semplice curioso che desidera capire un po' di più la società in cui vive

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