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Il mistero delle emozioni: non ciò che siamo, ma ciò che creiamo
La scienza ha svelato gran parte dei segreti del corpo umano, ma c’è un aspetto di noi che rimane ancora in parte avvolto nel mistero: le emozioni.
Secondo la visione classica, le emozioni sono universali e innate. Tutti gli esseri umani avrebbero in dotazione sei emozioni fondamentali — gioia, tristezza, rabbia, paura, sorpresa e disgusto — espresse attraverso le stesse identiche espressioni facciali in ogni cultura del mondo.
Questa idea è diventata molto popolare, tanto da ispirare libri, corsi di formazione e persino serie televisive di successo come Lie to Me, in cui il protagonista smascherava le menzogne semplicemente osservando i micro-movimenti del volto.
Affascinante, certo. Ma ciò che la scienza ha rivelato negli ultimi decenni è molto diverso. Nonostante centinaia di esperimenti, i dati raccolti non hanno mai davvero confermato la visione classica.
I primi studi si basavano sull’elettromiografia facciale (EMG), misurando i movimenti dei muscoli del viso mentre i soggetti venivano stimolati a provare determinate emozioni. Gli studi non furono in grado di dire in modo affidabile se qualcuno era arrabbiato, triste o spaventato: semplicemente le espressioni facciali che esprimevano erano così variegate che non potevano essere catalogate attraverso degli elettrodi facciali.
Gli esperimenti successivi provarono a misurare tutto il corpo: frequenza cardiaca, pressione sanguigna, temperatura della pelle e altri parametri fisiologici. Ebbene dopo tantissimi studi effettuati non fu riscontrata un “firma biologica” relative alle emozioni. Semplicemente non ci sono parametri fisiologici che possono determinare l’emozione della paura.
Studi più recenti hanno usanto anche la risonanza magnetica funzionale (fMRI) per individuare le zone del cervello maggiormente attive quando un soggetto provava un determinata emozione. I risultati di questi studi sono stati molto contrastanti tra di loro. Non è stato possibile associare in modo inequivocabile una particolare regione del cervello ad un emozione.
E allora cosa sono davvero la tristezza, la rabbia o la felicità?
Se ci pensiamo, sono parole che descrivono più noi stessi e il nostro contesto che un semplice stato biologico. Possiamo essere felici per una promozione, ma anche per una giornata trascorsa con la persona amata. Possiamo essere tristi per un’offesa ricevuta, per un rimpianto o per una perdita. Ogni termine emotivo, come la parola "tristezza", può racchiude un ventaglio di esperienze diverse: malinconia, dispiacere, amarezza, disperazione.
Gli studiosi chiamano questa prospettiva teoria delle emozioni costruite. Secondo questa visione, le emozioni non sono programmi innati che si attivano automaticamente nel cervello, ma concetti che impariamo e modelliamo attraverso il linguaggio e la cultura.
Come spiega Lisa Feldman Barrett nel libro Come sono fatte le emozioni, le emozioni sono costruzioni del nostro cervello, che unisce le sensazioni corporee, il contesto e l’esperienza passata per dare un significato a ciò che proviamo.
Se guardiamo una persona in volto, senza nessun’altra interazione, quello che possiamo dedurre con maggiore certezza non è quale emozione stia provando, ma il suo affetto di base: uno stato emotivo di fonto che può essere positivo o negativo.
Ma se quella persona inizia a raccontarci ciò che la turba o la rende felice, diventa molto più facile comprendere le sue emozioni. Questo perché condividiamo un sistema di concetti che ci permette di interpretare le esperienze.
Se ci confida che torna da lavoro tardi tutte le sere, pensiamo subito a stress e insoddisfazione. Se ci parla con entusiasmo del suo ultimo viaggio, comprendiamo la sua gioia.
La comprensione nasce non solo dalle parole, ma anche dai gesti. Fin da piccoli apprendiamo che un pugno sul tavolo è segno di rabbia, mentre un abbraccio esprime affetto. Sono comportamenti che assimiliamo osservando gli altri e che poi riproduciamo da adulti.
Ma come si creano queste emozioni?
Il cervello utilizza la nostra storia personale — esperienze, ricordi, emozioni già vissute — per prevedere cosa accadrà in una certa situazione. Lo fa in continuazione: anche mentre leggete queste parole, il cervello predice la prossima in base alle esperienze di lettura passate.
Lo stesso vale per i movimenti del corpo: il cervello prevede che allungheremo un braccio o scapperemo da un pericolo, e prepara i muscoli ancora prima che ne siamo coscienti.
Queste previsioni riguardano anche le sensazioni interne: il cervello modula battito cardiaco, tono muscolare, respirazione. Noi le percepiamo come uno stato affettivo di fondo (piacevole o spiacevole, calmo o agitato).
A questo punto, combinando segnali corporei, contesto, memoria e linguaggio, il cervello costruisce un significato: quell’insieme di sensazioni diventa “rabbia”, “paura” o “tristezza”.
Se la previsione è corretta, l’esperienza emotiva è coerente con la situazione. Se la previsione è sbagliata o imprecisa, possiamo provare emozioni confuse o sproporzionate, come l’ansia, senza un motivo apparente.
Un esempio è quello dei ragazzi bullizzati. Il cervello impara che stare in mezzo a gruppi di persone è pericoloso. Quindi, ogni volta che si trova in un contesto simile, anche anni dopo, il cervello prevede che quella situazione potrebbe essere minacciosa. Come risposta, prepara il corpo: attiva il sistema nervoso simpatico, aumenta il battito cardiaco, i muscoli si tendono, si può sudare, respirare più velocemente; tutti segnali non specifici, ma tipici dell’allerta.
Razionalmente la persona sa che oggi non c’è più pericolo, ma il corpo reagisce comunque. Il cervello interpreta quei segnali come un’emozione: ansia, paura, disagio sociale. Si crea così un’esperienza emotiva che è reale, ma basata su una previsione appresa nel passato, non sul presente.
Come scrive Lisa Feldman Barrett:
Le emozioni non sono risposte fisse, ma abitudini predittive del cervello costruite nel tempo.
Questo spiega perché a volte certe emozioni persistono anche quando sappiamo che non dovremmo provarle: la previsione continua ad attivarsi, anche se il contesto è cambiato.
Spesso, dopo aver vissuto esperienze difficili o traumatiche, continuiamo a rivivere le stesse emozioni e sensazioni. Forse un tempo ci hanno aiutato a sopravvivere o ad affrontare situazioni complesse, ma oggi non ne abbiamo più bisogno. Eppure restano lì, come un peso che ci fa soffrire, quasi fosse una condanna.
La teoria delle emozioni costruite ci dice che queste emozioni possono cambiare. Non è un processo facile né immediato: richiede tempo, impegno e apertura. Ma è possibile. Esporsi gradualmente a nuove esperienze, osservare i segnali del proprio corpo senza giudicarli, reinterpretare le proprie emozioni in chiave più positiva e fiduciosa: tutto questo aiuta il cervello a costruire nuove previsioni, più sane e in linea con il presente.
In questa prospettiva, le emozioni che oggi ci fanno soffrire non sono un destino immutabile. Sono parte di un vissuto che ci ha aiutato a superare alcune fasi della vita, ma che ora può essere trasformato. Ogni nuova esperienza è l’occasione per riscrivere le nostre previsioni emotive.
Perché le emozioni non sono ciò che siamo, ma ciò che creiamo. Non sono scolpite sul volto o nel corpo, pronte per essere lette da chiunque. Possono davvero essere comprese solo da chi ha il coraggio di guardarsi dentro o di ascoltare l’altro con autenticità ed empatia.
Come scriveva Virginia Woolf:
Quando siamo troppo allegri, in realtà siamo infelici.
Quando parliamo troppo, in realtà siamo a disagio.
Quando urliamo, in realtà abbiamo paura.
In realtà, la realtà non è quasi mai come appare.
Nei silenzi, negli equilibri, nelle ‘continenze’ si trovano la vera realtà e la vera forza…
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Pasquale Aramo
Questo blog nasce da un'esigenza semplice ma profonda: capire meglio il mondo nelle sue caotiche complessità. Non scrivo da esperto, ma da semplice curioso che desidera capire un po' di più la società in cui vive