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La solitudine, l’epidemia silenziosa del nostro tempo
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La solitudine, l’epidemia silenziosa del nostro tempo

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Paradossalmente, viviamo in una società iperconnessa ma sempre più sola. Negli ultimi anni stiamo assistendo a un aumento della solitudine che si diffonde a macchia d’olio in tutto il mondo, come una violenta epidemia: muta e silenziosa, ma dalle conseguenze devastanti.

Nel 2022 è stata condotta un’ampia indagine a livello europeo dal Joint Research Centre (JRC) in collaborazione con il Parlamento Europeo per il monitoraggio della solitudine in Europa — The EU Loneliness Survey.

Lo studio ha rilevato che in media il 13% degli intervistati si sente solo la maggior parte del tempo, con picchi che raggiungono anche il 20% in alcune regioni. Anche studi globali condotti in 159 Paesi (Global Trends and Disparities in Social Isolation) confermano questo trend in aumento.

Una società che premia l’individualità

Nel libro Il secolo della solitudine, l’economista Noreena Hertz analizza in modo scrupoloso questo fenomeno, individuandone le radici nella società contemporanea. Viviamo in un mondo sempre più individualizzato, alla costante ricerca della felicità e di una vita pienamente realizzata — professionalmente e relazionalmente. Siamo diventati individui perennemente insoddisfatti, pur avendo (quasi) tutto.

La tecnologia, che doveva connetterci, è diventata un’arma a doppio taglio: ci offre comfort e comodità, ma rende le nostre vite più isolate. I social media, con la promessa di avvicinarci, hanno amplificato le nostre paure. Cerchiamo “connessioni” per essere notati, apprezzati, riconosciuti.

I corrieri Amazon e i servizi di food delivery ci consegnano pacchi e cibo senza nemmeno dover uscire di casa. L’intelligenza artificiale si sta trasformando nel nostro confidente personale: le affidiamo pensieri e fragilità che spesso non riusciamo a condividere nemmeno con il nostro partner.

Neoliberismo e solitudine

Secondo Hertz, le fondamenta della crisi di solitudine che stiamo vivendo sono state posate negli anni ’80, con l’affermarsi di una forma particolarmente dura di capitalismo: il neoliberismo, promosso da Margaret Thatcher e Ronald Reagan. Un’ideologia che, come scrive Hertz:

premiava un’autonomia idealizzata, un governo debole e una mentalità brutalmente competitiva che poneva l’interesse personale al di sopra della comunità e del bene collettivo.

Al neoliberismo si attribuisce la responsabilità di aver aumentato nel tempo il divario di reddito: i ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Ha lasciato sempre più potere alle imprese e ai mercati finanziari, permettendo loro di plasmare le regole del gioco, mentre in parallelo sono diminuite le reti di welfare e di supporto.

Questo ha reso le persone più individualiste: ciascuno è costretto a provvedere a se stesso e a competere con gli altri per ottenere un posto nella società. L’interesse personale è diventato la vera forza motrice che governa il mondo — perseguito ad ogni costo e in ogni contesto.

Anche le relazioni amicali e amorose vengono spesso valutate in termini di vantaggio personale. Una delle domande che oggi ci poniamo più di frequente è: “Questa persona porta benefici nella mia vita?”.
Chiedersi se la amiamo non sembra più un requisito sufficiente.

Come afferma Hertz, il problema di una società egoista e incentrata su se stessa — in cui le persone sentono di dover badare solo a se stesse perché nessun altro lo farà — è che inevitabilmente diventa una società sola.

L’essere umano è un animale sociale, e quando è costretto a vivere la solitudine entra in modalità “allerta”. Il cervello inizia a interpretare il mondo come pieno di minacce, perché dal punto di vista evolutivo essere soli significava essere vulnerabili ai pericoli esterni. Le persone sole finiscono così per vedere il mondo come un luogo più ostile e sospettoso — e in questo modo la solitudine alimenta se stessa.

Ma la solitudine non nasce solo dalla mancanza di legami affettivi: aumenta in modo preoccupante anche tra le classi sociali più povere e vulnerabili. Una persona che perde il lavoro, infatti, perde molto più di una fonte di reddito: perde una parte della propria identità, il ruolo che aveva nella società.
Vive quella perdita come un’umiliazione, che lo spinge ad allontanarsi ancora di più dagli altri, rafforzando la sua solitudine. Ci si sente soli anche quando si perde fiducia nelle istituzioni, quando si percepisce che il governo non ci tutela e non ci rappresenta più.

Hertz cita diversi studi che mostrano come la solitudine, l’insoddisfazione e la sfiducia verso il prossimo e verso le istituzioni spingano le persone a sostenere i movimenti populisti di estrema destra. Questi partiti, nel rivolgersi a chi si sente solo e abbandonato, offrono un senso di appartenenza e identità fondato sul nazionalismo e sull’idea di un nemico comune: l’immigrato, l’élite, il diverso.

In questo modo, la sofferenza che nasce dall’isolamento trova sollievo nel condividere un nemico comune. Ci si identifica con una nazionalità, un’etnia, una lingua o un genere, che diventano qualcosa da difendere perché percepiti come minacciati. Così ci si sente finalmente parte di un “noi”, anche se costruito sull’ostilità: non amati, sostenuti o compresi, ma almeno non soli.

Già negli anni ’50 Hannah Arendt aveva intuito qualcosa di simile riguardo alle ideologie totalitarie. Osservò come l’ascesa della Germania nazista fosse sostenuta in gran parte da individui soli ed emarginati. Non avendo un posto nel mondo, sottomettendosi a un’ideologia ritrovavano uno scopo e un senso di sé. Come scrisse:

La solitudine è la condizione umana nella quale il terrore diventa possibile.

Forse non è un caso che negli ultimi anni stiamo assistendo a una nuova ascesa dei populismi e delle destre estreme. In quest’ottica, diventa sempre più importante invertire la rotta, promuovendo l’inclusione, il sostegno ai più fragili e, in generale, una forma di governo che alimenti la cooperazione e la fiducia reciproca.

Gli effetti della solitudine sul corpo

Purtroppo la solitudine non solo distrugge lo spirito e orienta la politica: uccide anche il corpo. Quando una persona si sente sola, il cervello interpreta questa condizione come una minaccia alla sopravvivenza. Dal punto di vista evolutivo, infatti, una persona sola è una persona vulnerabile.

Il cervello entra così nella modalità “allerta”, rilasciando cortisolo, l’ormone dello stress, che fornisce energia al corpo e lo prepara a reagire — fuggendo o lottando. Quando però la solitudine si protrae per settimane o mesi, il corpo inizia lentamente a cedere alla richiesta di essere sempre pronto alla minaccia.

Il rilascio continuo di cortisolo, invece di sostenere il corpo, finisce per danneggiarlo. Il sistema immunitario reagisce all’eccesso di cortisolo generando una infiammazione cronica, che a sua volta indebolisce l’organismo.

In questo stato, il corpo comincia a consumarsi: ci si sente più stanchi, svogliati, con meno desiderio di uscire. L’umore diventa più negativo, i rapporti peggiorano e tutto questo porta a un ulteriore isolamento sociale.
Un corpo indebolito diventa anche più vulnerabile a malattie cardiovascolari e infettive, e neppure il cervello viene risparmiato. Diversi studi menzionati da Hertz mostrano come la solitudine cronica possa favorire l’insorgere di depressione e altre patologie psichiatriche.

Quando il corpo è sottoposto a uno stress costante — come la solitudine o l’ansia prolungata — si genera una condizione di infiammazione cronica che innesca un circolo vizioso: il comportamento alimenta il malessere, e il malessere rinforza il comportamento. Alla lunga si arriva a una sorta di “sopravvivenza cronica”: il corpo e la mente restano bloccati in modalità allerta, e tornare alla normalità diventa molto difficile.

Le grandi città e la solitudine urbana

Ormai sempre più persone si stanno spostando nelle grandi città in cerca di lavoro e opportunità. Hertz cita diversi studi che mostrano come, in modo quasi paradossale, le grandi città rendano le persone più sole.
Chi si trasferisce in una metropoli spesso si allontana dalla propria rete sociale e fatica a costruirne una nuova. La città offre molto di più — servizi, eventi, intrattenimento, persone con interessi simili — eppure molti vivono vite parallele e separate.

Si vive in costante movimento, appesantiti dagli impegni quotidiani, e si lascia poco spazio alla lentezza e agli incontri spontanei. Ci si sente più liberi, forse anche meno giudicati, ma raramente veramente accolti. I legami diventano transitori e superficiali.

Forse accade perché abbiamo davanti a noi un’infinità di possibilità, ma è proprio questa libertà di scelta che finisce per chiuderci in noi stessi.
È come passare la serata a sfogliare il catalogo di Netflix senza riuscire a scegliere nulla. O come nelle app di incontri, dove l’illusione di avere infinite possibilità ci fa credere che basti scegliere per trovare la persona perfetta — quando in realtà costruiamo solo legami fragili e reversibili.

L’aumento dei divorzi

Quando poi crediamo di aver trovato la persona giusta e decidiamo di fare il grande passo, spesso, dopo alcuni anni, si arriva alla separazione.
L’aumento dei divorzi è un fenomeno allarmante che genera un profondo senso di solitudine. Si diventa una persona che dovrebbe “essere in relazione”, ma non lo è più: il partner non è più lì, gli amici in comune si diradano, il ruolo che si aveva nel tessuto quotidiano si ridimensiona.

Studi recenti mostrano che gli adulti divorziati riportano livelli più alti di disconnessione sociale e solitudine rispetto a chi è ancora sposato.
Forse l’aumento dei divorzi è riconducibile proprio al cambiamento dei valori sociali iniziato con il neoliberismo: l’individuo deve essere autosufficiente, realizzato, libero e impegnato nel perseguire la propria felicità.
E questa visione la proiettiamo anche sull’altro: il partner deve essere allineato ai nostri bisogni e capace di soddisfarli.

Più cresce la nostra libertà di scelta, più diventiamo esigenti verso la vita e verso l’altro, dimenticando che ogni legame, per sua natura, è imperfetto e richiede compromessi e comunicazione.
Se qualcuno non risponde alle nostre alte aspettative, siamo pronti a sostituirlo. Ma questa è solo un’illusione che genera maggiore solitudine: nessuno sarà mai abbastanza, se restiamo prigionieri di un ideale irrealistico di perfezione.

Come invertire la rotta

Prendere coscienza della direzione in cui sta andando la nostra società è già un primo passo per invertire la rotta. A volte basta poco: parlare con un vicino, conoscere il barista, rispondere con attenzione a un amico. Sono gesti semplici, ma possono avere un impatto profondo.

Come afferma Hertz, essere gentili con qualcuno lo rende più propenso a esserlo con noi; ma soprattutto, l’atto stesso di essere amichevoli fornisce un supporto emotivo e riattiva quel senso di tessuto sociale che ci fa sentire parte di qualcosa.

Servono anche spazi sociali per relazioni spontanee: piazze vivibili, biblioteche di quartiere, orti urbani. Luoghi dove potersi incontrare senza scopi economici. E serve promuovere valori diversi da efficienza, competizione e produttività: valori come la gentilezza, l’ascolto, la lentezza e la capacità di chiedere aiuto senza vergogna.

Conclusioni

Un mondo migliore è possibile, e già diverse iniziative sono in atto in tutto il mondo. Nel maggio 2019 la Nuova Zelanda è stata la prima a lanciare un programma che pone il benessere delle persone e dell’ambiente al centro delle proprie politiche, invece di concentrarsi esclusivamente sul PIL.
Negli anni successivi l’hanno seguita altre nazioni: Finlandia, Islanda, Scozia, Galles e Canada. Questa collaborazione, chiamata Wellbeing Economy Governments Partnership (WEGo), mira ad andare oltre il PIL per concentrarsi sul benessere reale delle persone.

Ma il cambiamento non può partire solo dall’alto: anche noi, nel nostro piccolo, possiamo fare molto per sentirci più vicini. A volte basta una parola gentile o un sorriso a un vicino.

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Pasquale Aramo

Questo blog nasce da un'esigenza semplice ma profonda: capire meglio il mondo nelle sue caotiche complessità. Non scrivo da esperto, ma da semplice curioso che desidera capire un po' di più la società in cui vive

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